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Ugo Mulas Photographer


Un Mondo in Bianco e Nero


Mulas non fu mai affascinato dal colore e lavorò tutta la vita con il bianco e nero, riuscendo a tirare fuori tante gamme cromatiche dal monocromo. Il colore avrebbe confuso l'immagine, diceva. Fu “il primo a mettere ordine in quella landa desolata che è la fotografia”, studiando a fondo la struttura della semiotica fotografica e il suo rapporto con la rappresentazione artistica, di cui la fotografia è la continuazione. 


Biografia

Ugo Mulas nasce a Pozzolengo, Brescia, il 28 agosto del 1928. Dopo aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza tra la casa paterna e Desenzano del Garda, nel 1948 si trasferisce a Milano per frequentare  la Facoltà di Giurisprudenza. Gli studi di diritto non lo appassionano e così nel 1951 si iscrive al corso serale di nudo dell’Accademia di Brera dove conosce i pittori Gianni Dova e Roberto Crippa. Entrato in contatto con gli artisti e gli intellettuali del bar Jamaica, nei pressi dell’Accademia, rinuncia a laurearsi e inizia a lavorare, come caricaturista e giornalista, per un’agenzia fino al 1953, quando insieme al suo amico fotografo, Mario Dondero, organizza una società per condividere il materiale fotografico e le spese dei lavori free-lance. La fotografia gli offre la possibilità di tradurre la propria sensibilità estetica e la curiosità intellettuale nel linguaggio delle immagini. Per esercitarsi, con una macchina fotografica avuta in prestito, comincia a realizzare una serie di ritratti degli amici del bar Jamaica, di  immagini della periferia e della vita degli operai. Le sue inquadrature rivelano eleganza nella composizione e attenzione per la descrizione dei suoi soggetti colti nel loro ambiente. Realizza, nel 1954, con Dondero, il suo primo reportage alla Biennale di Venezia. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, le sfilate francesi gli permettono di aggiornarsi sulle tendenze internazionali e per un periodo di tempo Mulas considera la fotografia di moda la sua attività principale. Nel 1964, in occasione della messa in scena della Vita di Galileo, di Brecht, stabilisce con Strehler una modalità di documentazione fotografica ispirata alla stessa tecnica del drammaturgo tedesco e che rimane in seguito la sua prassi per la rappresentazione dei lavori a teatro. All’inizio degli anni Sessanta matura una consapevolezza diversa sulla direzione da dare alla propria ricerca. Il suo continuo rapporto con il mondo dell’arte lo porta a una rinnovata attenzione per gli artisti. L’idea  di un reportage critico, dedicato alla scena artistica internazionale, matura in occasione della mostra Sculture nella città, che, nel giugno del 1962, riunisce oltre 50 scultori al quinto festival dei Due Mondi di Spoleto. Le fotografie vengono pensate come un dialogo con gli scultori attraverso la lettura delle loro opere. Dopo la Biennale di Venezia del 1964, che presenta la pop art al pubblico europeo e celebra New York come nuovo centro dell’arte mondiale, Mulas si reca negli Stati Uniti per realizzare un reportage sulla scena artistica newyorkese. La visione critica maturata sulla scena americana è alla base delle celebri serie realizzate sul taglio  di Lucio Fontana. Tornato in Italia, nel 1967, presenta la mostra New York. La sua ricerca cambia profondamente. Egli riconosce quanto la sua posizione di fotografo sia delicata, avendo a disposizione un linguaggio “non verbale” per cercare di trasmettere l’essenza di un altro linguaggio anch’esso visuale  qual è quello dell’arte. La soluzione che sceglie, dinnanzi alla specificità delle diverse situazioni che gli si presentano, è quella di cambiare atteggiamento di fronte a ciascun artista, così il suo “fotografare si risolve in uno studio sul comportamento”. Come spiega lo stesso Mulas «una volta finito il libro degli americani verso il 1967, non volevo diventare il fotografo dei pittori, fare i minimali e poi i concettuali, e poi la land art. (…) Questi pittori impongono il loro punto di vista perché la fotografia è la loro opera e (…) scelgono, di tutto il lavoro che fai, quella foto che a loro interessa e tutto il resto deve essere eliminato. (…) Ho sempre cercato di esprimere un mio punto di vista, un mio modo di vedere, non mi interessava essere usato dagli altri».  L’interesse verso il lavoro degli artisti diventa confronto concettuale.  Prende le distanze dall’idea della singola immagine e le operazioni urbane degli artisti diventano per lui occasioni per indagare analiticamente sulla propria ricerca di fotografo. Nel 1969 collabora con il regista Virgino Puecher per la scenografia dell’opera lirica Giro di vite di Benjamin Britten. La trama del dramma, con le sue suggestioni surreali, lo porta all’uso della solarizzazione e delle proiezioni in dissolvenza. Dopo il successo di questo spettacolo realizza con Puecher anche la scenografia del Wozzeck di Alban Berg. L’ambientazione dell’opera in un lager nazista lo spinge a fotografare le periferie milanesi e a riscoprire le sue ricerche di paesaggio urbano. Da questo lavoro di scenografia nasce l’idea di un Archivio per Milano, che teorizza come una produzione di immagini urbane da mettere a disposizione di chiunque volesse compiere studi sulla città. Nel 1970 scopre di essere ammalato di tumore. Nell’arco di tempo che lo separa dalla morte si dedica a fare ordine nella propria opera, scrivendo commenti al lavoro svolto, e si impegna in quella riflessione critica sul significato e sulle modalità del medium fotografico, che prenderà sostanza e forma nelle cosiddette “Verifiche”. Una sorta di testamento spirituale, possiamo dire, una specie di analisi dell’ operazione fotografica per individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé, oltre che un fondamentale lascito a quanti si sarebbero interrogati dopo di lui sulla fotografia. Muore a Milano il 2 marzo del 1973.















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