«La fotografia mi interessa sempre meno. Quello che mi interessa è ciò
che la fotografia ti permette di fare. Di toccare un altro, di conoscerlo. Di
mostrarlo»
Biografia
Nato a Roma nel 1964 da una famiglia di architetti, è uno
dei più autorevoli fotoreporter del fotogiornalismo mondiale. Il suo percorso inizia
tra i banchi della facoltà di architettura, ma al terzo anno la abbandona perché quell’indirizzo di studio non
era di suo interesse. Comincia allora a cercare un altro percorso, quello che
gli consenta di esprimere la sua sensibilità. La sua ricerca lo porta ad
iscriversi ad un corso di fotografia, che frequenta per un anno e lì capisce
che quella è la sua strada.
All’età di 23 anni inizia un percorso duro e faticoso,che durerà circa nove anni,
che lui stesso definisce di «clausura auto-imposta»: diventa free-lance, lavora
come assistente e passa molte ore in camera oscura per diventare completamente
padrone della fotografia. Lavora incessantemente e i primi riconoscimenti non
tardano ad arrivare. Nel 1995 vince il suo primo World Press Photo per il suo
lavoro sull'AIDS in Uganda; nel 2001 ottiene il premio Leica Medal of
Excellence; nel 2004 l'Olivier Rebbot for Best Feature Photography; nel 2006
l'Eugene Smith Grant in Humanistic Photography; ed infine, nell'aprile del
2007, vince il prestigioso Robert Capa Gold Metal per il coraggio dimostrato
durante gli scontri in Libano. Pellegrin
vive tra Roma e New York, collabora regolarmente con il Newsweek e con il New
York Times magazine, nel 2005 diventa membro effettivo dell’agenzia Magnum.
L’occhio attento di Pellegrin, "rivolto alla violenza
costante e quotidiana della società americana, alla discriminazione razziale,
al problema delle armi, alle disparità economiche e alla cultura della sorveglianza
su poveri e immigrati", ha dato vita ad un reportage di denuncia sociale che
mette in luce le contraddizioni presenti nella cultura statunitense.
Il suo lavoro ci porta a riflettere, mettendoci di fronte ad
una incongruenza visiva e cioè che apprezziamo come formalmente bello un
contenuto che in realtà non possiede nulla di bello. Analizzando in maniera più
profonda questa affermazione ci accorgiamo che il bello che noi vediamo altro
non è che l'emozione trasmessaci dal fotografo, quella che lui stesso ha
vissuto cercando di spogliarsi emotivamente «davanti al dolore degli altri».
Le sue immagini sono spesso in bianco e nero perché, dice lo
stesso Pellegrin, “ritengo di muovermi
nel solco di una tradizione umanistica che da 50/60 anni si esprime così. E poi
perché senza colore si sottrae una parte di realtà e l’immagine acquista una
carica simbolica più forte. Almeno così io riesco a fare le cose che ritengo
migliori”.
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